È iniziato tutto in America, oltre dieci anni fa: da allora, scarpe spaiate o legate tramite laccio hanno cominciato ad apparire appese ai cavi del telefono o della luce un po’ dappertutto – da un paio d’anni, e con sempre maggior frequenza, anche in Europa. Un fenomeno in espansione cui è stato dato persino un nome: lo shoefiti, neologismo che tiene insieme la parola “shoe”, scarpa, e “-fiti”, suffisso di “graffiti”.

Ma rispetto ai graffiti c’è qualcosa di sostanzialmente diverso: come ha tenuto a precisare il sociologo Marco Valesi dell’Università Merced in California, i graffiti sono una forma di protesta contro, per esempio, i politici, le forze dell’ordine, il sistema, e tendono ad apparire nei quartieri più periferici di una città. Lo shoefiti, invece, è completamente privo di questa carica conflittuale: le scarpe appese si possono trovare un po’ dappertutto, dal centro storico alle zone universitarie, non per forza nei quartieri degradati o problematici.

Sull’origine di quest’uso, poi, molteplici sono le teorie: tutto potrebbe essere partito per emulazione di un rito militare, e cioè quello di appendere le scarpe per celebrare la fine del servizio militare e il ritorno alla propria vita, o addirittura da un segnale tipico dei narcotrafficanti, con cui si comunica l’arrivo di una partita di droga. Ci si potrebbe essere ispirati anche a delle pellicole cinematografiche: scarpe di questo genere, infatti, sono state avvistate in scene di film come Big Fish di Tim Burton o nel meno recente Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore.

Tralasciando il mistero intorno alla sua nascita, lo shoefiti resta attualmente, per chi lo mette in pratica, una specie di celebrazione di un “rito di passaggio”: un tentativo di instaurare una forte interazione tra cittadino e città, attraverso una propria personale traccia, lasciata in mostra in un quartiere della città in cui ci si trovava o in cui si vive.