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L’uomo, per sua natura, è portato ad escludere sofferenze ed ostacoli quando immagina e sogna un futuro prossimo o imminente. Siamo soliti immaginare romantici quadretti familiari, figli che ci sorridono mentre pronunciano le prime parole, inondandoci il cuore di gioia. Come se l’immediata felicità fosse un diritto, come se il diverso non debba far parte della nostra vita, come se una felicità più dura, guadagnata e non stereotipata non sia felicità.

Per questo e per altri motivi, dare alla luce un figlio con problemi di autismo suscita pena, sconforto, tenerezza e paura. Suscita sguardi impietositi ma non volenterosi di capire, di aiutare, di sostenere davvero chi vive costantemente l’autismo.
L’autismo fa paura perché è latente, non si manifesta oppure esplode. Richiede amore, pazienza e molto spesso l’amore e la pazienza sono fonti limitate ed esauribili nei cuori di chi si professa umano.

In questa giornata, dedicata all’autismo è doveroso raccontare una storia: la storia di Jem e Noah, un padre ed un figlio.
Noah è nato in un ospedale a nord di Londra, il 16 luglio del 2000, un mese prima che finissero i 9 mesi di gravidanza. Da quel giorno di luglio, Noah fa dei lenti progressi: riesce a stare seduto a 6 mesi ed impara a camminare a 21 mesi. Parla poco, quasi per niente.

A marzo del 2003, dopo una visita da uno specialista, Jem e sua moglie Kate vengono informati sulla causa del lento apprendimento di Noah: l’autismo.
Nello stesso istante in cui Jem e Kate sono venuti a conoscenza di questo fatto, le loro menti erano piene di quesiti e domande: “Come farà Noah a capirci?” “Riusciremo a comprenderlo?” “Lo perderemo?”

Fortunatamente e nonostante le difficoltà, Noah è cresciuto: è diventato un adolescente brillante ed ha sviluppato una personalità forte. Chiede cibo in continuazione, non parla ed è capace di distruggere una stanza in meno di un minuto, ma la sua vulnerabilità e la sua innocenza hanno reso Jem ancora più devoto nei suoi confronti.
Jem e Noah hanno un rapporto speciale, si comprendono a vicenda e si amano come solo un genitore ed un figlio possono fare.

Un giorno, quando Noah aveva più o meno 5 anni, due bambine della sua età hanno chiesto a Jem perché Noah non riuscisse a parlare, in maniera presuntuosa. Jem non ha pensato due volte a rispondere a tono alle due bambine: “Noah parla solo con bambine davvero carine“.
In quel momento Jem dice di essersi sentito forte e protettivo nei confronti di suo figlio.

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Adesso Noah vive in una scuola nel Berkshire, dove ha imparato ad essere più autosufficiente ed autonomo. Jem va a trovarlo ogni due settimane e insieme mangiano cotolette alla milanese. Per Jem è difficile e doloroso stare lontano da Noah, ma solo in questo modo suo figlio può convivere meglio con l’autismo ed imparare nuove cose.
L’unica cosa che distrugge davvero Jem è non avere la possibilità di far comprendere al massimo a Noah quanto lui lo ami e lo apprezzi.