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Due esplosioni all’aeroporto di Bruxelles, vicino agli imbarchi per gli Stati Uniti, e poi una terza, nella stazione della metropolitana di Maalbeek, a due passi dalla Commissione Ue. Il panico dei passeggeri, le urla dei cittadini, il fumo che avanza: è tutto reale. Questa mattina, alle ore 8:00 circa, il Belgio ha capito di essere sotto attacco. Oggi Bruxelles è una città blindata, occupata dall’esercito che tenta di ristabilire l’ordine e trovare il responsabile delle tremende esplosioni, mentre i suoi abitanti piangono almeno 13 morti e 35 feriti. Un bilancio che fa male e fa pensare: si poteva evitare un’altra strage?

Nel frattempo, noi, che cosa possiamo fare? Di nuovo, sui social network, torniano a diffondere le nostre preghiere verso i caduti, come abbiamo fatto per Parigi, per Charlie e per Ankara. Anche stavolta siamo qualcuno, siamo Bruxelles. Basteranno 140 caratteri su Twitter o un lungo post su Facebook per far sentire il nostro conforto ai parenti delle vittime? Cosa possiamo fare quando un attentato, apparentemente distante geograficamente, ci colpisce nel profondo? È più o meno in quel momento che realizziamo il senso di paura. Quando il terrore ci toglie la voglia di vivere, ci impedisce di respirare, di viaggiare e di guardare “l’altro” come una persona e non come uno straniero, comprendiamo che siamo in trappola. Fermi, immobili, prigionieri del nemico chiamato terrorismo.

Non serve a nulla chiudere le frontiere, impedire gli sbarchi, come vorrebbero i nostri governi, poiché il male è già radicato all’interno dei nostri paesi. Per questo, dobbiamo alzarci. È ora di svegliarci e di aprire gli occhi: questo non è un gioco, questo è il mondo che ci siamo meritati. Un posto fatto di violenza, sangue e repressione, dove l’integralismo e la globalizzazione non funzionano se non c’è cooperazione e sicurezza a livello internazionale. Prima di domandarci in che mondo viviamo, chiediamoci di quante persone possiamo realmente fidarci e di quanto siamo protetti nella nostra casa.