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Cercare di spiegare la malattia mentale a qualcuno che non l’ha mai provata è, come afferma la fotografa Katie Crawford, come cercare di spiegare ad un cieco i colori.

Invece di affidare alle parole la descrizione dei suoi disturbi di depressione e ansia, contro cui la Crawford combatte dall’età di 11 anni, Katie ha deciso di provare a trasmettere le sue emozioni attraverso una serie di autoritratti che ha raggruppato in una mostra intitolata “My Anxious Heart”.

La fotografa, che soffre di questa malattia da molto giovane, all’età di 21 anni ha deciso di interrompere, sotto la supervisione di un medico, l’assunzione di medicinali perché la rendevano così debole e assente che non era in grado di frequentare i corsi dell’accademia d’arte a cui si era iscritta. Questa decisione ha completamente sconvolto il suo modo di vedere il mondo; la giovane seppur scossa da frequenti attacchi di panico, ha deciso di trovare un veicolo per dare un senso di normalità alla sua vita, cosa che appunto ha scoperto essere la fotografia.

Ciascuno dei ritratti di Katie Crawford rappresenta un’emozione apparentemente ineffabile: un telo di plastica che la avvolge fino alla bocca rappresenta le sue lotte fisiche e metaforiche per respirare, il peso della vita che scorre rappresentato come una giara piena d’acqua che viene lasciata cadere, il terrore di addormentarsi e svegliarsi con un attacco e, ancora, la sensazione di intorpidimento che i medicinali hanno come effetto collaterale.

Nel mondo il 10% della popolazione è affetta da disturbo da ansia generalizzata. Nonostante ciò questo disturbo è poco conosciuto e le persone che ne soffrono sono considerate semplicemente svogliate e poco reattive, nel lavoro o nella vita.

L’intento di questo progetto è sensibilizzare l’opinione pubblica e far sì che il disturbo mentale non sia trattato con vergogna, ma come se fosse un disturbo fisico. Sensibilizzando la popolazione sulle reali difficoltà e sul reale peso che queste malattie comportano, facendo riflettere su cosa voglia dire essere “intrappolati” nei propri pensieri. Per fare in modo che le persone, capendo o cercando di capire cosa voglia dire essere affetti da queste malattie, aiutino o perlomeno non giudichino chi ne è affetto.