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Tristezza, l’emozione più bistrattata e meno rispettata di tutte. Ce la immaginiamo più o meno come in ‘Inside Out”: blu, viola, comunque scura, o di un colore che odiamo, bassa, cicciottella e brutta, così come vediamo noi stessi in preda ad essa.

La evitiamo il più possibile, come la peste. È assolutamente vietato essere tristi. Perché sin da piccoli ci hanno abituato ad inseguire la felicità, a dover essere allegri e spensierati ad ogni costo. E la tristezza diventa solo una debolezza da nascondere, da rinchiudere in un cerchio, che provoca un senso di colpa che ci spieghiamo con difficoltà.

Ma che cos’è la felicità senza un po’ di tristezza? Semplice allegria, qualcosa di cui godere sul momento, che si accantona facilmente e che si perde tra altri mille ricordi. Niente di fondamentale, insomma non un “ricordo base”.

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Questo perché la tristezza è importante, essenziale oserei dire. È la tristezza che ci rende profondi, introspettivi ed empatici con gli altri. Che ci far riflettere, ci fa comprendere cosa è davvero importante e cosa non lo è. Che ci connette con il nostro io più vero e ci permette di esplorare lati celati ed inespressi della nostra personalità a cui non diamo mai peso. È la tristezza che rende la gioia importante.

Bisognerebbe imparare a convivere con gli attimi di tristezza, senza dover per forza crogiolarcisi dentro. Forse da piccoli dovrebbero insegnarci che a volte è giusto essere un po’ tristi. Che va bene provare questa emozione, proprio come la gioia, il disgusto, la rabbia e la paura. Che è un’emozione affrontabile senza affondarci dentro, che non ci annienta ma ci fortifica. Che può essere gestita. Che passa, come tutto. E che la gioia, grazie a lei, tornerà a brillare come prima, se non di più.